DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Tommaso Labate per roma.corriere.it - Estratti
C’è chi va, chi non va, chi può, chi non può. «È un’iniziativa del gruppo della Camera, noi del Senato ne organizzeremo presto una nostra, ai Castelli Romani», dice Francesco Boccia, che prepara la trasferta della sua pattuglia di Palazzo Madama.
«A Gubbio ci sarei andato volentieri ma in quei giorni ho un appuntamento già preso per una crisi aziendale seria, da me in Liguria», spiega Andrea Orlando. «Certo che ci vado!», scandisce Peppe Provenzano, col tono di voce di chi non vede l’ora di partire per la scampagnata.
Già, perché la prima gita fuori porta del Pd targato Elly Schlein — in realtà un’iniziativa aperta ai soli componenti del gruppo della Camera, organizzata dalla presidente Chiara Braga — si pone quantomeno l’obiettivo minimo di riabilitare agli occhi della politica il caro, vecchio «conclave», che nella storia più o meno recente del centrosinistra ha assunto i connotati dell’antipasto di sciagure prima inimmaginabili. Nulla che stavolta faccia presagire tutto questo, anzi; al seminario sull’Europa convocato per il 18 e 19 gennaio prossimi al Park Hotel dei Cappuccini di Gubbio il piatto più piccante riguarderà la candidatura della segretaria alle Europee, invisa a un pezzo di partito.
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La smania dei progressisti all’italiana per le gite fuori porta, usanza restaurata all’epoca della Seconda Repubblica sulla scia della grande tradizione democristiana abbandonata dopo la fine della Prima, fu all’origine della fine del primo governo Prodi. A Gargonza, in un convento della Val di Chiana senese prenotato per l’8 e 9 marzo 1997 per elaborare insieme a studiosi e scienziati delle nuove idee per l’Ulivo (c’era anche Umberto Eco), esplose la frattura tra il Professore e Massimo D’Alema. «Scusatemi, sarò spigoloso», fu l’incipit dell’intervento dell’allora leader di Ds, che stroncò senz’appello la via prodiana al superamento dei partiti. Un anno dopo, il governo Prodi non c’era più.
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«Saremo la forza tranquilla della coalizione», disse Nicola Zingaretti da un tavolino dell’abbazia di Contigliano (provincia di Rieti), dove nel gennaio di quattro anni fa aveva trascinato praticamente tutto il Partito democratico. Il tavolo era disseminato di bottiglie d’acqua frizzante; ma evidentemente, invisibile nell’aria, tra i maggiorenti del partito si respirava quel veleno che un anno dopo avrebbe portato il segretario a presentare le sue irrevocabili dimissioni dalla guida del partito. «È uno stillicidio, me ne vado». Altro che forza tranquilla.
A conti fatti, il conclave andato meglio fu quello promosso da Enrico Letta all’inizio dell’avventura del suo governo. Due giorni all’abbazia di Spineto, provincia di Siena, in cui il premier e il suo vice Angelino Alfano arrivarono guardandosi in cagnesco (Alfano e i ministri berlusconiani erano reduci dal «comizio anti pm» al Tribunale di Brescia) e andarono via sorridendo, a braccetto. «Com’è andata? Bene, abbiamo fatto spogliatoio», disse Letta. Otto mesi dopo, il suo governo non esisteva più.
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