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Antonio Riello per Dagospia
Curata da Clarrie Wallis, questa alla Tate Modern è la prima rassegna davvero importante dedicata al complesso lavoro di Mona Hatoum da un museo londinese.
Britannica di adozione dal 1975 ma nata a Beirut nel 1952 in una famiglia palestinese rifugiata in Libano, Mona Hatoum è personaggio schivo, un pò distante dagli indiavolati fasti modaioli della Londra mondana che ha saputo conquistarsi una robusta e riconosciuta reputazione a livello mondiale. E proprio tutte queste specificità che derivano dalla sua origine, sempre presenti in un modo o nell’altro, nelle circa cento opere in mostra ne costituiscono la prima, tormentata, essenziale cifra etica.
Nel corso della sua carriera, l’artista ha padroneggiato con sicurezza un po’ tutti i media: performance (il suo primo interesse), disegno su carta, video, installazioni monumentali, fotografia, scultura. Ha anche usato, con successo linguaggi formali assai diversi tra loro spaziando dal minimalismo al surrealismo.
In questa sua eclettica curiosità, è sempre stata capace di mantenere integra, con estrema coerenza, la propria vocazione. Di fatto da tutto il suo lavoro emerge un consistente e determinato senso di identità, da qualsiasi prospettiva lo si voglia esaminare.
Il suo modo di operare è - per fortuna - ancora saldamente radicato nell’impegno politico, certo lontano dalle tentazioni di un mercato d’arte oggi molto spesso dominato da aspetti prettamente finanziari e speculatori. Per onore di cronaca comunque non siamo di fronte ad un’ingenua sprovveduta, il suo lavoro a Londra è (meritatamente) rappresentato dalla celeberrima e agguerrita galleria White Cube. Il tono delle opere di Mona Hatoum è sempre composto e mai banale.
Racconta di tragedie epocali, sofferenze e separazioni personali, difficolta’ e discriminazioni ovviamente anche legate all’essere donna e profuga. Nessuna forma di facile esibizionismo ruffiano ma invece semmai un racconto visivo che, proprio per la sua misura e rigore se non addirittura per un certo distacco, riesce a rendere più credibili (e terribili) le storie messe in scena attraverso un’energetica e drammatica compostezza.
Si inizia con la testimonianza fotografica di una sua ormai storica performance “Roadworks” (1985) legata ai tumulti che avevano infiammato il sobborgo di Brixton nel sud di Londra nell’Aprile del 1981, dove l’artista camminava scalza per le strade di Brixton con, legati ai piedi, un paio di pesanti scarponi in dotazione alla polizia che rimbombavano rumorosamente sul selciato.
Accanto si può ammirare l’opera “Socle du Monde” (1993), omaggio ad una famosa opera di Piero Manzoni del 1961 allo stesso tempo reminescenza anche della Kaaba della Mecca. Un cubo metallico magnetizzato piuttosto voluminoso su cui è sparsa una grande quantità di limatura di ferro che riproduce sia visivamente che tattilmente le linee del campo magnetico. Impressionante, sembra un grande mammifero peloso e cubico.
L’installazione “Light Sentence” (1992), consiste invece in una sala dove tante piccole gabbie metalliche illuminate ed aperte generano un ombra sinistra sulle pareti, suggerendo un piccolo ma micidiale universo concentrazionario.
Poi alcuni video del suo periodo più “politico” (sia nei confronti della società britannica che sulla condizione dei palestinesi nel Medio Oriente) realizzati agli inizi degli anni novanta; uno di questi, “Corps etranger”, realizzato grazie a una serie di sonde-videocamere che penetrano il corpo dell’artista e ne mostrano l’interno. Non solo l’intimita’ corporea violata ma anche una brillante e intrigante metafora della cosiddetta civiltà della sorveglianza elettronica (proprio la nostra…).
“Homebound” (ne esistono in verità parecchie versioni adattate a svariate occasione espositive) ci mostra un ambiente domestico, visibile solo dall’esterno, pieno di oggetti in metallo nel quale non si può fisicamente accedere per via di una recinzione orizzontale in cavi in acciaio. Qui la recinzione sembra essere attraversata da energia elettrica ad alta tensione, il periodico e ossessivo variare dell’illuminazione e un apposito apparato sonoro offrono al visitatore una percezione quasi palpabile di questa corrente. Il tutto diabolicamente associato ad un minaccioso senso di disagio.
Verso la fine degli anni novanta, di fatto, Mona Hatoum sposta il suo baricentro verso tematiche più personali e intime, anche legate al concetto di “gender”. Una ampia serie di oggetti e installazioni testimoniano questo passaggio come ad esempio la bellissima combinazione di sedie che richiamano da vicino la sedia dipinta da Van Gogh.
Poi tra gli altri tanti lavori memorabili: ”Keffie” apparentemente solo una tradizionale keffia palestinese ma magistralmente realizzata in realtà intessendo capelli femminili, “No Way” (con diverse versioni realizzate nel corso degli anni) in pratica dei colapasta in acciaio provvisti di pungenti viti che li rendono inutilizzabili se non come strumenti di tortura e infine l’iconico e potente “Paravent”, una serie di grattugie giganti in metallo del 2008.
Oggetti della rassicurante domesticità, stravolti e resi sinistramente pericolosi. Probabili mute testimonianze di violenze casalinghe. Un universo conosciuto e sicuro all’apparenza dove invece tutto pare diventare in qualche modo sorprendentemente aggressivo, tagliente, abrasivo, sottilmente spaventoso.
Una sorta di minimalismo poetico, abbastanza pacato, avvolge le opere successive. L’installazione cinetica “+ and –“ (anche qui ne esistono varie versioni, quella in mostra è del 2004) consiste in un ampio cerchio di sabbia bianca disposto sul pavimento dove, grazie and un marchingegno mosso da un invisibile motore elettrico, si crea e si disfa in continuazione un ordinato disegno, quasi un respiro cosmico.
“Impenetrable” (del 2009) ci mostra una specie di elegantissimo cubo sospeso composto da tante linee verticali che scendono da soffitto. Avvicinandosi si scopre che queste linee sono in realtà pezzi dritti di filo spinato, “penetrabili” dunque visivamente ma (appunto) fisicamente “inpenetrabili” dal corpo umano. L’opera “Hot Spot” (2009), tra l’altro anche esposta alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, rappresenta un enorme mappamondo dove i continenti sembra siano luoghi infuocati e roventi (la potenza del neon colorato…).
E infine ecco “Undercurrent (red)” un’installazione del 2008 che da sola occupa una grande sala: un complesso intricatissimo, affascinante intreccio di fili elettrici rossi che compone una sorta di tappeto alle cui quattro estremità, come fossero frange, ci sono delle lampadine accese.
Una mostra densa, complessa ed emozionante che va vista con calma e la dovuta attenzione. Soprattutto oggigiorno direi, perchè la sua in fondo è anche la storia di una “migrante” di talento.
mona hatoum corps etranger
mona hatoum 9
MONA HATOUM
Tate Modern,
London, SE1
Dal 3 Maggio al 21 Agosto 2016
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