sinner mamma siglinde papà hanspeter

LA REGINA D’INGHILTERRA ERA…SIGLINDE! SELVAGGIA: “SMETTETE DI DIRE CHE PER SINNER NON C’ERA NESSUN RAPPRESENTANTE DELLE ISTITUZIONI ITALIANE A WIMBLEDON, C’ERA LA PIU’ ALTA CARICA DEL NOSTRO PAESE, LA MAMMA SIGLINDE” - JANNIK SINNER NON RAPPRESENTA L’ITALIANO MEDIO E PROPRIO PER QUESTO NE INCARNA LA QUINTESSENZA: LA FAMIGLIA SEMPLICE E MONTANARA, LA MAMMA SUPERSTIZIOSA CHE SUSSURRA PREGHIERE DIETRO OGNI MATCH POINT, IL PADRE LAVORATORE SILENZIOSO...

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Maurizio Crosetti per “la Repubblica” - Estratti

 

sinner e la mamma siglinde

La regina d'Inghilterra si chiama Siglinde e faceva la cameriera. Il suo principe consorte, di nome Hanspeter, invece faceva il cuoco in un rifugio dolomitico. Chef stellato, ma nel senso delle stelle alpine. Il suo orgoglio è la Padella dell'Alpinista, inventata ormai una ventina d'anni fa: rosticciata di canederli, filetti di maiale, salsa gulash e cavolo cappuccio. Buona, ma per stomaci forti: si digerisce al quinto set.

 

Poi c'è Mark, figlio adottivo e fratello a tutti gli effetti: nato a Rostov sul Don, e adottato dalla famiglia Sinner due anni prima che arrivasse Jannik. Fa l'istruttore dei Vigili del Fuoco, e se non ci sono gran premi di Formula uno va a vedere finali Slam. 

 

«Siamo una famiglia semplice», ripete il rosso per raccontarla. Probabilmente è vero. La mamma è quella con gli occhiali scuri e le mani sul volto, il papà è quello che sorride come un crocerista al primo viaggio, il fratello ha un po' la faccia buffa da cartone animato. La mamma si è seduta in tribuna appena distante, in una specie di personalissimo altrove: al Roland Garros, soffrendo come soltanto una madre sa, ne aveva rappresentate milioni (oggi, va da sé, è anche la mamma più invidiata d'Italia). Babbo e fratello, invece, nel perimetro ufficiale del box. Sono squadra, loro. 

sinner e la mamma siglinde

 

 

(...)

 

Non è una ragnatela, non è una catena. E infatti Sinner non è un mammone, anche se così appare all'occhio distratto. Amava moltissimo anche la zia Margith, sorella della madre da poco scomparsa: a settembre le aveva dedicato gli Us Open. 

 

La potenza dell'immagine e dei social ha portato Siglinde, Hanspeter, Mark e Jannik in tutte le case, li abbiamo fatti accomodare in cucina e ci siamo specchiati in quelle emozioni, in quella Padella dell'Alpinista piena di paura e gioia. Alla fine, avremmo voluto abbracciarli pure noi. Senza offesa, ormai siamo quasi parenti. 

Jannik ha scherzato, parlando del fratello durante la premiazione. 

 

Prima, aveva abbracciato la mamma sussurrando parole loro, con quella tenerezza che non stravince. E aveva appoggiato dolcemente il capo sul petto del padre, perché è sempre al padre che l'eroe ritorna: non ha fatto altro che parlare di lui in ogni suo gesto, da quando era alto così. La Coppa d'oro viene dopo, semmai. 

siglinde la mamma di sinner

 

Papà Hanspeter non era andato alla finale di Parigi perché aveva da faticare (anche ora che i Sinner potrebbero comprarsi il Lussemburgo, non smettono di farlo). Lui e la moglie gestiscono una casa vacanze a Sesto Pusteria, si chiama naturalmente "Haus Sinner" («Siamo pieni di lavoro», dicono), e come meta di pellegrinaggio e selfie supererà l'altra casa più fotografata d'Italia, quella del commissario Montalbano in Sicilia. 

 

Qui invece è montagna ovunque, soprattutto dentro. Incantata o magica, per i Sinner è lo stesso. 

 

 

SINNER

 

Da rivistacontrasti.it

 

(…) Jannik non rappresenta l’italiano medio e proprio per questo ne incarna la quintessenza. Tirolese, germanofono, cresciuto tra Sesto e San Candido, lontano da cliché e fisime meridionali, troppo rigoroso per chi cerca il talento istrionico. Sono tutte clausole vuote. La sua lingua madre non è l’italiano così come non è il tedesco, di cui parla una variante che ha lo stesso rapporto del barese con il toscano.

 

La sua compostezza glaciale in campo urta chi confonde l’essere italiano con l’operetta. Ma se l’italiano medio non si sente rappresentato da Sinner, è perché preferisce identificarsi in caricature, ignorando i tratti più profondamente nazionali che lui incarna: la mamma superstiziosa che sussurra preghiere dietro ogni match point, il padre lavoratore silenzioso che ha forgiato con l’esempio una dedizione quasi contadina. Siamo schiavi delle immagini chiassose, come Marinetti ci bollava “incatenati alla pasta come galeotti condannati a vita“.

JANNIK SINNER

 

L’Italia che applaude solo l’urlatore di turno resta prigioniera di queste catene. Anche nella settimana in cui si ritira dal gioco del diavolo quel guascone italianissimo di Fogna.

 

È italiano anche Sinner, è tanto italiano.

 

Non è freddo, è timido, non è nordico per noi, ma terrone per i mitteleuropei. Siamo l’unico paese d’Europa assurdamente convinto di essere etnicamente diverso. Ma non è così. L’Alto Adige (sic!) è cattolico, agricolo, sospeso nel tempo. E se San Candido è italiana soltanto per meccaniche da trattati di pace, se dalla Val Pusteria portavano al kaiser la sua acqua di fonte preferita, noi non riusciamo a capire che le Tre Cime sono lontane da Roma quanto lo sono da Vienna.

 

JANNIK SINNER DOPO LA VITTORIA A WIMBLEDON

Quindi anche se artificialmente, perché non può essere italiano? Il calore smentisce ogni stereotipo: nei rifugi le porte restano aperte, un piatto di suppe si offre senza forma, e le mani callose stringono le tue con forza sincera, le gote rosse delle cameriere con quei sorrisi tanto imbarazzati. Le feste di paese sono ancora scandite dal rintocco delle campane e la solidarietà alpina si misura in legna lasciata alla porta dei vicini d’inverno.

 

La montagna può abbracciare più del mare, con un affetto che non ha bisogno di proclami. È una cultura che fonde fatica e fede, dove l’eleganza sta nel fare senza dire. La gente del Tirolo conosce l’arte del silenzio: sanno che la neve cade senza far rumore e che il raccolto arriva solo dopo mesi di attesa paziente. È quella stessa pazienza che ritrovi nel tennis di Sinner, dove ogni punto è costruito come un muro a secco sulle terrazze della valle, ogni scambio un sentiero scavato tra rocce e alberi.

 

sinner e il papà hanspeter

Siglinde, dopo l’attacco di panico allo Chatrier, ha lasciato il Centrale a metà prima partita per una passeggiata snervante, la tipica mamma italiana. Petto gonfio di sentimenti e scaramanzia. Papà Hanspeter, cuoco nel rifugio Talschlusshütte, non ha fatto il pellegrinaggio a Parigi perché doveva lavorare. Lavoro prima, famiglia dopo, senza interferenze con il successo del figlio. Sul campo la stessa cifra: niente esultanze plateali, niente riti di gruppo.

 

Un gioco misurato, un’eleganza letargica, un gesto simbolico.

 

Carlitos, che si vuole emotivo, caliente, figlio andaluso. Al contrario quanto di più freddo e calcolatore il tennis contemporaneo possa offrire: spocchioso nella sua devozione assoluta alla vittoria, programmatico, ogni gesto pensato come un algoritmo. Anche quando sorride, sembra misurare l’ampiezza dell’angolo con la stessa precisione con cui calcola quei maledetti drop eseguiti con il goniometro.

sinner iga swiatek

 

I pugni chiusi, i vamos urlati, quelle mani portate all’orecchio del viso tozzo, sono prove di sceneggiatura più che manifestazioni genuine. La sua è liturgia della performance, culto dell’efficienza che si veste di folklore iberico solo per piacere al pubblico e alle telecamere. È il sole di Murcia senza raggi, una corrida senza sangue.

 

Sinner, al contrario, conquista per l’assenza di tutto questo, senza calcoli ossessivi, solo una disciplina che sembra istintiva, naturale, figlia della montagna e del lavoro. Un uomo che non recita, che non costruisce narrative e che è tanto più emotivo di come ce lo stiamo raccontando. Chi cerca nel tennis l’urlo, la teatralità, l’effetto bel paese, resta spiazzato. Ma è proprio l’italiano medio – che non parla dialetti urlati, che lavora, che prega, che soffre e spera – che trova in Sinner il suo riflesso.

 

Non un cliché da cartolina, ma una fisionomia domestica, l’anima di milioni di italiani veri.

 

jannik sinner vittoria wimbledon

Eppure, gli altri, gli italioti continuano a non riconoscersi, impegnati a scimmiottare aristoborghesie (piccolissime) da circoli. La convinzione che il tennis sia emanazione di benessere, i primi detrattori sono i centro-meridionali, neo borbonici, che hanno usato la racchetta come dichiarazione di redditi e bene posizionale per la famiglia parvenu. Così come questa massa informe che ha scoperto il tennis l’altro ieri e vi vuole tradurre i principi del tifo, della passione, della religione di popolo che è il pallone.

 

Il trionfo all’All England va oltre: è la certificazione che l’Italia profonda – quella fatta di silenzi, mani in pasta, preghiere sussurrate, orari precisi, coraggio ordinario – può dominare il palcoscenico mondiale senza diventare mascotte. E quando, con il trofeo in mano, ha ringraziato i genitori e l’Italia intera aggiungendo “questa è la nostra vittoria, non solo la mia“, ha alzato la coppa come un manifesto: la vera italianità non si urla, si lavora e prega.

 

sinner alcaraz wimbledon