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Isabella Bossi Fedrigotti per il “Corriere della Sera”
In quattro anni è diventata la regina di Venezia. Tutti ne parlano, tutti la vogliono. È Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei civici veneziani, che sono dodici, e cioè Palazzo Ducale, Correr, Fortuny, Torre dell' orologio, Cà Rezzonico, Cà Pesaro, Cà Mocenigo, Casa Goldoni, Museo del Vetro, Museo del Merletto, Museo Navale, Museo di Storia Naturale.
E presto i «suoi» musei saranno 13: il palazzetto delle Pescherie di Rialto diventerà infatti un nuovo spazio espositivo, su progetto di Maria Cristina Gribaudi, presidente della Fondazione, dedicato alla storia della Serenissima.
«Non sarà, però, un vero museo storico - precisa Gabriella Belli - bensì un luogo dove un visitatore possa scoprire la Venezia nascosta, il suo sapere, il suo artigianato, le sue grandi stagioni artistiche, la sua creatività, i suoi commerci, il suo rapporto con il mare e quello con la terraferma.
Un luogo, insomma, che spieghi il mito di Venezia, un luogo che sia la prima tappa, quasi obbligatoria, di una visita. Per riempirlo abbiamo qualcosa come settecentomila oggetti nei nostri magazzini, ma non vogliamo un ennesimo museo, bensì qualcosa di nuovo, un crocevia culturale capace di orientare, di raccontare l' anima profonda di questa straordinaria città».
Gabriella Belli, trentina, prima di passare a Venezia si è occupata per trent' anni del Mart, Museo di arte contemporanea di Rovereto e Trento, per il quale ha curato più di sessanta mostre di pittura, architettura e design: una creatura sua, in un certo senso, ma lo si può dire soltanto senza il suo permesso, perché lei scuoterebbe la testa, negherebbe.
Si può dire che tutto sia cominciato al liceo Prati di Trento, con una magnifica insegnante di storia dell' arte che ha acceso nell' alunna Gabriella la passione per la sua materia. È stato naturale poi iscriversi (e laurearsi) al Dams di Bologna e specializzarsi in critica d' arte contemporanea all' Università di Parma.
Un uomo all' antica
«Forse naturale, ma non facile. Mio padre, uomo all' antica, del genere per il quale quel che le mie due sorelle ed io facevamo non bastava mai, era medico e avrebbe voluto che tutte e tre le sue figlie, e non soltanto due, studiassero medicina. E se per l' arte antica poteva avere una certa comprensione, fu profondamente deluso quando mi dedicai al contemporaneo.
Ma la mia voglia di sfide sempre nuove l' ho comunque presa da lui.
Indimenticabile, per me, la prima, quando, a 26 anni, vinsi un concorso della Soprintendenza per i beni storico artistici del Trentino, nel settore Tutela e Catalogazione del patrimonio. Fu un lavoro meraviglioso: assieme al bravissimo Flavio Faganello girammo la provincia, fin nelle valli più remote, in cerca di cappelle, chiese, conventi, palazzi, castelli.
Lui fotografava e io compilavo schede. Ne è nato il mio primo libro, sugli ex voto, e ricordo ancora il commento di mio padre "Questa non è vera arte!" Ripenso spesso con nostalgia a quel primo impiego perché, nel mio settore, più si sale e più si rischia di perdere il contatto con le opere mentre il catalogatore le deve toccare davvero».
Poi, nel 1982, venne l' avventura delle Albere, antico palazzo rinascimentale, dimora estiva dei Principi Vescovi di Trento, nel quale ebbe l' incarico di progettare un museo di arte moderna, primo seme del futuro Mart.
«C' era a Trento un gruppo abbastanza numeroso di giovani artisti che, giustamente, chiedevano un luogo per l' arte contemporanea e il compito fu affidato a me, per il semplice motivo che ero l' unica tra gli aspiranti ad avere una specializzazione in quella materia; la sfida - azzardata- fu di realizzare un museo aperto al mondo dentro un edificio adatto piuttosto a una prigione, con mura spesse un metro, porte basse, finestre strette, torri e fossato intorno.
Ma perché nascesse il Mart di Rovereto ci vollero ancora venti anni, segnati da battaglie infinite e polemiche faticosissime, con attacchi contro il progetto del museo e contro di me: anche con un' accusa di riciclaggio di opere d' arte e carabinieri a perlustrarmi ufficio e casa».
Un cavaliere
Gabriella Belli è stata docente di arte contemporanea all' Università di Trento e all' Accademia di Mendrisio, è membro della Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all' estero, è stata commissario della Biennale di Venezia, ha ricevuto dal ministro francese della cultura l' onorificenza di Cavaliere delle arti e delle lettere. Immaginava che avrebbe raggiunto tutto questo? «Ovviamente no, non potevo immaginare.
Anche se una costante del mio carattere è di volermi porre l' asticella sempre più alta. E sono stata fortunata ad avere avuto l' appoggio di Massimo (De Carlo, direttore della galleria "Lo Scudo" di Verona, presidente dell' Associazione delle gallerie d' arte moderna e contemporanea e "fidanzato" di una vita di Gabriella) che mi ha sempre sostenuto e incoraggiato».
Più donne
Come mai l' arte, sia antica sia moderna e contemporanea sta così spesso in mano alle donne? «Mah, a me pare un fenomeno soprattutto italiano e questo mi fa pensare che sia così perché di solito vi si guadagna assai poco.
Succede un po' come per l' insegnamento o l' editoria. Ma certo dipenderà anche dal fatto che gli studi umanistici, che poi portano alle professioni dell' arte, sono sempre stati una scelta più femminile che maschile. Le cose comunque stanno cambiando perché vedo sempre più uomini che partecipano ai concorsi.
Fanno bene perché lavorare in questo ambito riconcilia con la vita. E prevengo la domanda che arriva sempre: si mangia con la cultura? La risposta è che certamente mangia lo spirito. Se poi la cultura è in stretta connessione con il territorio, ci sarà anche un indotto fatto di turismo, artigianato, ristorazione».
Che cosa sogna la regina di Venezia? «Ho i piedi per terra e perciò sogno solo cose possibili, di cui sono certa di riuscire a realizzarle. Mi sento fortemente funzionario pubblico, al servizio delle istituzioni. E sono fiera di non possedere neppure un' opera d' arte, avendole tutte regalate ai musei».
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