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Giuseppe Videtti per “il Venerdì di Repubblica”
Colto, egoista, motivato, instancabile, determinato, frivolo, pettegolo, egocentrico, manipolatore. Spietato? Naturalmente. Non c'è cultura più spietata di quella che Andy Warhol (1928-1987) ha messo in moto. La nuova Arte.
"Una volta che "entri" nel pop, non puoi più guardare un cartellone pubblicitario nello stesso modo di prima. Una volta che cominciavi a pensare pop, non potevi più guardare l'America nello stesso modo di prima. Ne eravamo sicuri, stavamo contemplando il futuro. Vedevamo gente che ci camminava dentro senza saperlo perché i loro pensieri erano ancora nel passato. Il mistero era scomparso, ma la meraviglia era appena cominciata".
Così scrive Warhol con Pat Hackett in POPISM (pubblicato per la prima volta nel 1980 e oggi riedito da Feltrinelli), il più interessante dei suoi tre libri (gli altri: The Philosophy of Andy Warhol e The Andy Warhol Diaries), perché è quello che meglio fa intuire la sua (vera?) natura; intelligenza acuta a caccia frenetica di uomini e cose per foraggiare le sue idee.
Il quarto d'ora di celebrità era lo specchietto per le allodole, la strizzatina d'occhio a quelli che intuiva avessero i numeri per ridefinire - come sensali, mai come protagonisti - il concetto di arte, che dopo di lui sarebbe diventato "altro".
Warhol se ne sbatteva di quel quarto d'ora, puntava all'eternità. Nessuno riesce in un'impresa del genere senza guardare dritto davanti a sé, usando il meglio di quel che gli si para intorno, noncurante delle reazioni, delle fragilità, delle conseguenze.
Marketing, comunicazione, linguaggio, vita sociale, musiche, film, progetti grafici, impaginazione, fotografia, lettering, arredamento; le discoteche, i ristoranti, le boutique, le vetrine e persino le confezioni degli alimenti hanno ancora la sua firma (anche senza copyright).
S'intuisce che l'aveva giurata anche al potentissimo gallerista Leo Castelli che, all'alba dei Sessanta, gli aveva preferito Roy Lichtenstein. In realtà la sua rabbia nessuno l'ha mai documentata; la vendetta la serviva a base di indifferenza, che fa ancora più male (come si sentiva Valerie Solanas quando in quel cruciale 1968 gli sparò, senza ferirlo a morte, nell'atrio della Factory?).
La pop art era troppo giovane e ai galleristi non era ancora chiaro il concetto "you know your culture from your trash", la tua cultura si vede dai rifiuti, per dirla col Peter Gabriel di Steam.
Dice bene Alessandro Carrera nella prefazione: "Da POPISM i lettori non verranno a sapere la 'verità' ma leggeranno come Warhol l'ha voluta raccontare, come ha voluto giustificarsi e anche, tra le righe, come ha voluto tacerla. Mai fidarsi di Andy Warhol. Criticatelo finché volete, ma non c'era altro modo di sopravvivere al tritacarne dei meravigliosi, crudeli anni Sessanta. O mentivi, o morivi".
Non è Warhol a sublimare la grande bugia e santificare la grande illusione, a costo di martirizzare il popolo della Factory (cantanti, musicisti, registi, scrittori, socialites, fotografi, giornalisti: Interview è un mensile tuttora in edicola, ancora molto bello), fulminati e schiavizzati dalla sua personalità?
"Non mi imbarazzava chiedere: 'Che cosa dovrei dipingere?'. Perché il pop viene dal mondo esterno, e dove sta la differenza nel chiedere idee a qualcuno invece che cercarle in una rivista?
C'era gente che ostentava disprezzo se gli chiedevi una dritta; non volevano sapere niente di come lavoravi, volevano che tu mantenessi la tua mystique cosicché ti potessero adorare senza essere imbarazzati dai dettagli" scrive.
Detto così sembra altruista e democratico. Ma alla Factory non regnava la fratellanza della Beat Generation. Andy era a caccia di talenti e idee, ne aveva bisogno come un tossico della dose; nessuno l'ha mai visto al capezzale dei suoi divi malati, distrutti dalla droga, schizoidi, spiantati o dissociati.
opera di andy warhol esposta alla galleria restelliartco
Che fosse la sua musa Edie Sedgwick o Lou Reed e Nico dei Velvet Underground, schiavi dell'eroina. Pietas e Pop hanno in comune solo le P. Nel 1961 già si fregava le mani sbirciando nei fenomeni di massa - all'epoca era la febbre del twist: "Andavamo alla Peppermint Lounge sulla 45th Street. Come titolava Variety, nuova "mossa" nella café society - gli adulti adesso vanno pazzi per il nuovo beat dei giovani".
Ne aveva macinate di risorse umane quando vent'anni più tardi entrava da trionfatore allo Studio 54, più riverito e accreditato di Truman Capote. Il pop è un'arte che non ha segreti. Tutto in piazza.
Se la riderebbe oggi di certe degenerazioni, social e reality. Lui che ha scritto un voluminoso diario in cui invece di raccontarsi ci mette al corrente della sua economia domestica - ricevute di taxi comprese. Più enigmatico del testo della canzone che David Bowie gli ha dedicato nell'album Hunky Dory. Alla sua mystique ci teneva, eccome!
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