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DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE - “SKATE STORY” NON È UNA SIMULAZIONE CON INTENTI REALISTICI ALLA TONY HAWK, MA UNA BIZZARRA AVVENTURA LISERGICA PER LE STRANE STRADE DELL’OLTRETOMBA - CIÒ CHE DISTINGUE IL PROTAGONISTA SKATER, IN UNA SQUISITA E TRAGICA DIMENSIONE DI OSSIMORO, È IL SUO CORPO DI VETRO: BASTA QUINDI UNA CADUTA PER INFRANGERLO - UN’OPERA CHE SUBLIMA LO SKATEBOARD COME STRUMENTO IMPAREGGIABILE DI NAVIGAZIONE... - VIDEO

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Federico Ercole per Dagospia

 

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Capita ancora di vedere persone navigare la città sullo skateboard e desta meraviglia vederle faticare con aerea e terrena grazia, sfrecciare su questi surf da onde di cemento, trascorrendo vicino, in maniera assai più elegante, a signore e signori che si muovono automatici su monopattini ricaricabili o inforcando supersoniche bici elettriche sulle quali pedalare davvero è attività rara.

 

Capita troppo poco in realtà, di ammirare gente che fa skate, gesto atletico e ribelle insieme, ed è una cosa triste. Come malinconico, sebbene talvolta alleggerito da una surreale comicità, è Skate Story dell’artista newyorkese Sam Eng per PlayStation, Switch 2 e PC, pubblicato da Devolver.

 

Non si tratta di un videogioco alla Tony Hawk, quindi una simulazione con intenti quasi realistici di un’attività sportiva e così punk da essere diventata terreno fertile per questa musica, almeno in California, ma di una bizzarra avventura lisergica, una possibile fuga da un inferno dove le anime dei dannati non riescono a riposarsi per il brillare infausto di una luna che è più tormentosa del sole.

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Tuttavia si fa skate, senza gareggiare se non con se stessi in una sfrenata e acrobatica corsa liberatoria per le strane strade dell’oltretomba, competendo talvolta a furia di spettacolari “trick” contro nemici dalle forme allegoriche più astratte che mostruose. Così corriamo vitrei e sempre prossimi a infrangerci in questo gioco con un ipnotico e “herzoghiano” cuore di vetro, scappando con una volontà cinetica e liberatoria, arenandoci talvolta rapiti dalle trite burocrazie e da bubboni capitalistici che continuano a prosperare anche laddove regna la morte.

 

Una corsa poetica, urgente, talvolta delicata e bella, una specie di emancipazione dalle fondamenta più moderniste e belliche del futurismo, confutate dall’ebbrezza e dalla necessità della velocità pura.

 

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“SAREI FINITO SENZA DI TE, CUORE DI VETRO, COME UN ANGELO ACCECATO CHISSÀ DOVE ME NE ANDREI…”

Cantavano i Camaleonti. Angeli accecati, incapaci quindi di volare, decaduti fino alla trasfigurazione demoniaca. Una canzone che non ha nulla a che vedere con Skate Story, ma il bello di ogni corrispondenza è anche l’improbabilità. Almeno questo le intelligenze artificiali non saranno mai capaci di farlo.

 

Chi gioca è dunque demone in viaggio per ritornare ad una umanità: per riuscire nell’impresa, ordina Lucifero, bisogna divorare quella bellissima e crudele luna. Ciò che distingue il protagonista skater in una squisita e tragica dimensione di ossimoro, è il suo corpo di vetro, basta quindi una caduta per infrangerlo, come un omino di carta che attraversi un inferno di fiamme l’estinzione è sempre possibile, sebbene da queste debolezza e contraddizione sorga un’epica.

 

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Durante il viaggio avventuroso talvolta ci si ferma a parlare e a interagire con personaggi assurdi ed esemplari, facendo per questi commissioni necessarie per proseguire, sempre in condizioni critiche, facendo skate mentre il tempo fermo dell’ade morde furioso le caviglie.

 

Si imparano numerose acrobazie che potrebbero sembrare solo motore di un’azione spettacolare, ma diventano invece necessarie in alcuni frangenti, come nei “combattimenti” con i boss, durante i quali lo skate diviene arma.

 

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Si tratta di segmenti non facili, perché può capitare di dimenticare le combinazioni di tasti necessari per i “trick”, quali muscoli interattivi utilizzare, così l’esito è spesso drammatico, di rottura e sconfitta. Si ripete quindi e si cerca di ricordare, assimilando in maniera naturale ogni acrobazia, allenandosi con pazienza e determinazione, come ogni skater d’altronde.

 

MUSICHE CHE INSEGUONO E SUPERANO O RESTANO INDIETRO

La colonna sonora, o meglio il panorama sonoro, di Skate Story è esemplare nel suo accompagnamento inestinguibile di una velocità che risulta simbolico, delle decelerazioni, delle soste in cui il tempo sembra collassare. La musica è la compagna di fuga, spinge e ispira, descrive o astrae.

 

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Si tratta di brani composti dal collettivo di musicisti chiamato Blood Cultures.  Armonie, timbri e ritmi sperimentali che variano dall’elettropop al jazz, da memorie punk a frastuono metal in una costante dimensione psichedelica.

 

La peculiarità dell’estetica, i suoni, le azioni e le parole compongono un insieme artistico coerente, di straniante ma lucida unicità. Skate Story ripristina in una cornice onirica, virtuale e sempre stralunata le filosofie e le possibili pratiche dello skate, indicandone il valore di strumento esplorativo dello spazio, una volontà di potenza sul cemento e sul traffico urbano non solo intesi nella loro qualità infernale ma nella loro possibilità di essere tappeto di una bellezza che solo la velocità e la fatica di trascorrere su una inattuale tavoletta a quattro ruote può rivelare.

 

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