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il kirghiso dell attentato a san pietroburgo Akbarjon Djalilov
L.Sgue. per “la Stampa”
Comincia da una mano divelta con dei fili, rinvenuta non lontano dalle porte del vagone del metrò sventrato, l' identikit del presunto terrorista-kamikaze di San Pietroburgo, munito di zainetto, berretto e occhiali da hipster, confermato ieri dal Comitato Investigativo russo dopo lunghe incertezze. Ma finisce con dei fili ideologici ancora difficili da dipanare.
Si chiama Akbarzhon Jalilov, classe 1995, ha 22 anni ed è originario del Kirghizistan, repubblica ex sovietica dell' Asia Centrale, che tanti combattenti e jihadisti ha dato all' Isis, da cui proveniva anche l'attentatore di Istanbul. Ma ha il passaporto russo, come tutti i predecessori accusati di atti di terrore sul territorio russo in era Putin: lo avevo ottenuto sei anni fa, nel 2011, al consolato russo a Bishkek.
Da sei anni viveva alla periferia di Pietroburgo, in un quartiere che alcuni media russi si azzardano a paragonare a Molenbeek o alla banlieue parigina. Secondo il sito Gazeta.ru era piuttosto «integrato», lavorava col padre in una officina.
Nessun precedente penale. Ma di recente, con un percorso che ricorda i «lupi solitari» europei, era tornato a casa, a Osh dove viveva sua madre: non una città a caso, sul versante kirghizo della valle del Ferghana per metà uzbeka, culla di opposizioni, repressioni e fondamentalismi pericolosamente intrecciati.
Città sotto Bishkek, ma a maggioranza uzbeca, percorsa da odi inter-etnici esplosi in un tragico pogrom nel 2010. Il 3 marzo sarebbe tornato in Russia, non direttamente a Pietroburgo, ma via Mosca, come «una persona diversa - taciturno e introverso». I servizi russi starebbero cercando di scoprire chi avrebbe potuto incontrare nella capitale, possibili complici o organizzatori dell' attentato.
E secondo il quotidiano Kommersant, gli investigatori verificano possibili rapporti tra Jalilov, la sua famiglia e lo Stato Islamico, studiando le tracce lasciate dal giovane sui social network. Forse sarebbe stato anche in Siria.
Se fosse lui l' attentatore, condividerebbe con altri jihadisti dell' universo post-sovietico il doppio binario Asia Centrale-Russia-Califfato, via Turchia: molti centroasiatici si sono radicalizzati proprio a Mosca o a San Pietroburgo, dove a migliaia lavorano come «gastarbeiter», spesso manovali nei cantieri edili, dove opererebbero decine di reclutatori russofoni dell' Isis.
Usati spesso, come all' aeroporto Ataturk, da «manovalanza del terrore» dai più esperti caucasici, ceceni o daghestani, registi degli attentati. Il Kirghizistan, che oggi conta circa 2000 cittadini nel Califfato (quasi due volte in più rispetto ai nativi del Daghestan russo), si è detto subito pronto a collaborare con Mosca.
Nel frattempo, lo Stato Islamico diffonde un messaggio audio di 7 minuti in arabo, probabilmente registrato prima di San Pietroburgo, del portavoce Abi al-Hass an al-Muhajir che «si congratula con i soldati del Califfato, che hanno portato attacchi nei Paesi degli infedeli in Europa».
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Non una rivendicazione, ma un tentativo di mettere il cappello sul ritorno repentino del terrore in Russia, incitando a nuovi attacchi. Citando le Crociate: «Trump è stupido e deve ritirare i soldati da Iraq e Siria altrimenti saranno massacrati. Prenderemo Baghdad e Damasco, poi Qom e Teheran. E anche Istanbul. Senza sparare un colpo».
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