DAGOREPORT - COSA POTREBBE SUCCEDERE DOPO LA MOSSA DI ANDREA ORCEL CHE SI È MESSO IN TASCA IL 4,1%…
1 - LA CUCINA È SEMPRE MENO ITALIANA. SORPASSO DEI LAVORATORI STRANIERI
Giacomo Galeazzi per “la Stampa”
Parla sempre più straniero la ristorazione italiana. Tra tre mesi, nel settore-simbolo del «made in Italy», avverrà lo storico sorpasso. Nei servizi di ristorazione la «globalizzazione trova la più evidente realizzazione», documentano le elaborazioni dell’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Monza e Brianza su dati Unioncamere-Ministero del Lavoro (sistema informativo Excelsior 2015).
DA ANNI UNA CRESCITA INARRESTABILE
Le cifre del mercato del lavoro straniero in Italia crescono nei ristoranti e negli alberghi fino a raggiungere una soglia mai raggiunta, superando il numero di ingressi italiani. Il personale non qualificato immigrato assunto entro dicembre supererà la quota italiana, attestandosi al 51,2%, con 1240 immigrati assunti su un totale di 2420 addetti.
Quindi, per la prima volta, tra fornelli e tavoli dei ristoranti, gli stranieri occuperanno la maggioranza dei posti di lavoro. Già ora un nuovo pasticcere, gelataio, aiuto cuoco su quattro è straniero. Un inarrestabile trend di crescita che riguarda tutte le attività della ristorazione. Le più recenti statistiche fotografano un boom di assunzioni non stagionali nei comparti «ristorazione, servizi turistici e accoglienza».
IN CUCINA AI FORNELLI E IN SALA TRA I TAVOLI
L’internazionalizzazione della ristorazione italiana riguarda cuochi in alberghi e ristoranti (17,1%), addetti alla preparazione, cottura e distribuzione di cibi (9,1%), camerieri (16,6%), spostamento merci (34,7%), pulizia (48,3%), mansioni commerciali (28,3%).
Il boom di assunzioni di stranieri (51,7%) riguarda soprattutto «i mestieri di supporto in cucina a cuochi e camerieri, lavando le stoviglie, il pentolame, mantenendo pulite le attrezzature, predisponendo gli ingredienti da lavorare e verificandone la disponibilità in dispensa». Mansioni faticose, poco retribuite ma necessarie.
MESTIERI SEMPRE MENO ITALIANI
Tra i lavori per cui la quota dei neoassunti stranieri è superiore alla media ci sono anche i conciatori di pelle e pellicce (29,6% delle nuove assunzioni), pittori e decoratori (25%), falegnami e operai del legno (13,6%). Dai dati emerge che gli italiani scelgono sempre meno i mestieri (specialmente quelli legati alla ristorazione) che impegnano anche nei weekend e nelle festività. Così entro la fine del 2015 oltre 52mila posti di lavoro andranno a stranieri.
2 - LA CARBONARA NUMERO UNO LA PREPARA IL TUNISINO NABIL
Mattia Feltri per “la Stampa”
La perfetta rosolatura del guanciale è una questione tunisina. Se l’amatriciana vada sfumata con vino bianco, e se il sugo con la cipolla sia sacrilego oppure no, è materia bangladese e forse la notizia del giorno è che alla «Gatta Mangiona», dove si sforna una delle pizze più celebri di Roma, un ragazzo italiano sta entrando nell’elitario club degli egiziani, costituito da due pizzaioli e due cuochi. Infatti ci furono tempi in cui si scriveva, fra l’esotico e il millenaristico, che i migliori interpreti della margherita e della quattro stagioni non venivano più da Napoli ma dal Nord Africa.
Il titolare della «Gatta Mangiona», Giancarlo Casa, racconta che «è dagli Anni 70 che gli stranieri sono entrati nella ristorazione romana. All’epoca erano soprattutto egiziani, che lavoravano di più e talvolta venivano pagati di meno ma, soprattutto, allora agli italiani pareva umiliante raccontare in giro di essere pizzaioli o aiuto cuochi, faceva molta più scena dire di essere ragionieri. Fa ridere, ma era così».
Il fenomeno è cresciuto rapidamente, è diventato andazzo, ma adesso qualcosa sta cambiando, dice Casa, «un po’ per la crisi, e si prende il lavoro che c’è, e soprattutto perché l’idea di essere impiegati nella ristorazione si è molto nobilitata. Io alla “Gatta Mangiona” ho due pizzaioli e due cuochi egiziani perché gli italiani faticano a reggere i ritmi, non vogliono lavorare ogni sabato sera perché devono portare la fidanzata a ballare e roba del genere. Adesso ho questo ragazzo italiano che ha volontà e talento, vediamo...».
Il problema è che potrebbe essere un pochino tardi visto che già sette anni fa, nel 2008, il Gambero Rosso consegnò il premio per la miglior carbonara di Roma a Nabil Hadj Hassen, tunisino, cuoco di «Roscioli», a due passi da Campo de’ fiori, e al secondo posto si piazzò il bangladese Ajit Ghosh dell’«Arcangelo» al quartiere Prati. Il «New York Times» impazzì e ci scrisse sopra corrispondenze dal sapore epocale.
Perché, in effetti, non si trattava più della sola e per quanto mitologica pizza, ma di piatti della tradizione romana che ogni turista immagina cucinati dalla nonna del ristoratore secondo le procedure dei tempi di Rugantino. Stiamo parlando di due cuochi di Roma a un passo dalla canonizzazione, e non solo per questioni gastronomiche. Nabil, 51 anni, da 10 star di «Roscioli», è in Italia da quasi 30 anni, l’ha girata da Sud a Nord, e ha cominciato da lavapiatti per cui, ancora oggi, dice che «la base della cucina è saper lavare i piatti».
Peccato che i ragazzi non ne abbiano nessuna voglia, «i ragazzi escono da costosissime scuole di cucina e non sanno fare niente di niente, non sanno nemmeno impugnare un coltello, sbattono contro una realtà a cui sono totalmente impreparati». Nabil, dice Valerio Capriotti, collaboratore dei «Roscioli», «sabato ha preparato 92 piatti di pasta. Un discreto decente piatto di amatriciana, più o meno sono capaci di farlo tutti.
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Sapete che significa, per capacità, concentrazione, sforzo fisico, sangue freddo, fare novantadue piatti di pasta all’altezza delle aspettative? Sono imprese a cui gli italiano sono spesso meno pronti».
E infatti le cose sono andate più o meno così da «Cesare al Casaletto» (Villa Pamphili), celebrato come un sacro custode della tradizione romana. Ma anche lì gricia e cacio e pepe sono in mani bangladesi, quelle di Arif Hossain, 32 anni, e dei suoi tre aiuti e compatrioti.
«Gli ho insegnato come si fa e paradossalmente, non avendo delle pretese artistiche, o delle convinzioni tramandate in famiglia, Arif ha imparato perfettamente», dice il titolare, lo chef Leonardo Vignoli. Chiunque mangi da lui pensa di imbattersi nelle sapienti mani di una sora Lella, e invece sono le mani di Arif la cui qualità di partenza, dice Vignoli, è di essere «affidabile per impegno, serietà, disponibilità.
Arif ha capito, come ogni grande cuoco, che bisogna essere puntuali nell’orario d’ingresso ed elastici nell’orario di uscita, ed è un’apertura mentale che un italiano ha sempre più di rado. Gli stranieri che vengono qui e riescono a imparare un lavoro, specie se importante come quello di cuoco, sanno di essere fortunati».
Gli italiani, aggiunge Capriotti di «Roscioli», «anche i più volenterosi, si spaventano per la mancata corrispondenza fra le loro conoscenze teoriche e la mole di lavoro che gli è richiesta, qualità compresa». E non ci vogliono particolare capacità intuitive per realizzare che il mondo non si divide fra italiani e stranieri, ma fra chi sa preparare una carbonara e chi no.
3 - “IL PARADOSSO DEGLI ITALIANI: A LONDRA COME LAVAPIATTI MA QUI NON LO FAREBBERO MAI”
Da “la Stampa”
I ragazzi italiani non vogliono più fare i camerieri né lavorare nelle cucine dei ristoranti. Eppure tanti dei nostri figli e nipoti vanno a fare gli stessi mestieri a Londra, Parigi, Madrid, Sydney», osserva il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis. «E’ un segno storico: un intero sistema entra in crisi dimensionale».
Come spiega il paradosso?
«In realtà non c’è contraddizione. I dati della ristorazione tracciano una chiara tendenza economica e sociale Questo settore in Italia è mediamente un’attività a bassissimo investimento d’ingresso e di scarsa qualità. Sono quasi tutti piccoli imprenditori che puntano alla clientela “low cost”. Vogliono solo tagliare i costi del personale, quindi assumono prevalentemente immigrati. Non c’è altro obiettivo».
Lavori rifiutati dagli italiani?
«Non è tanto una questione di scelte personali. E’ piuttosto un problema di dimensioni troppo ristrette delle aziende che in Italia operano nella ristorazione. Incide anche la presenza di una quota di giovani italiani schizzinosi che, se possono evitarlo, preferiscono uscire con la fidanzata o andare a ballare con gli amici invece di lavorare la notte e nei weekend in locali surriscaldati, per una paga mediocre e col fiato sempre sul collo dei proprietari».
Però poi emigrano a fare gli stessi mestieri. Dove è il vantaggio?
«Nella prospettiva. L’italiano che va in Spagna o in Francia magari all’inizio accetta di fare lo sguattero o di pelare patate, però ambisce a diventare uno chef stellato o ad aprire un suo ristorante. Se resta in Italia e viene assunto in una rosticceria o in una trattoria continuerà negli anni a svolgere lo stesso lavoro in imprese ad inadeguata capitalizzazione.
Da noi il ristoratore, a fronte di modesti investimenti, si circonda di addetti a bassa retribuzione, spesso inquadrati contrattualmente come addetti non qualificati ma che in realtà cucinano la pasta alla carbonara e la bagna cauda o stanno a diretto contatto con la clientela. Mia nipote va a fare la pasticciera nei Paesi Baschi per farsi strada a livello internazionale, in contesti aziendali ad alta intensità di capitali».
Cosa cambia se resta in Italia?
Maestranze in attesa di sfilare con i piatti dello Chef
«Per uno stipendio da fame avrebbe sempre gli abiti e le mani che mandano cattivo odore, ma soprattutto dovrebbe rassegnarsi a non crescere professionalmente. In Italia conta tagliare il più possibile i costi di esercizio. Non è solo questione di paga differente, ma di ambizione che il mercato italiano non consente di alimentare».
E il «made in Italy» in cucina?
«Svenduto a prezzi stracciati. Roma è l’esempio più evidente di una dinamica che coinvolge la ristorazione italiana. Per il Giubileo sono in arrivo nella capitale 33 milioni di pellegrini, però il modello dilagante rimane quello della trattoria al risparmio in cui un pizzaiolo egiziano, un cuoco pakistano e 2 cameriere moldave mandano avanti il ristorante di cui è proprietaria la famiglia italiana. Non si investe per migliorare, la qualità è considerata un lusso ».
Perché assumono immigrati?
«Vengono dalla miseria nera. Qui lavorano sodo e non si lamentano. Per loro essere in Italia è giù un colossale avanzamento sociale. Essere assunti in trattoria per gli immigrati è traguardo, per i nostri figli e nipoti è una sconfitta, un ridimensionamento delle aspettative. La colpa è degli investimenti inadeguati.
Se manca la visione, piccolo non è bello. La prima volta che misi piede a Prato le aziende tessili erano microscopiche: le famiglie compravano un telaio e lo piazzavano nel sottoscala per lavorarci a turno. Poi però sono diventate imprese mondiali. La rosticceria invece resterà sempre com’è. Finirci a lavorare significa non avere possibilità di progredire. Cuochi e camerieri italiani storcono il naso, si lamentano, pretendono prospettive che chi arriva da Senegal o Bangladesh non sogna neppure».
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