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Maria Pia Fusco per "La Repubblica"
Tanto per citare il suo film del 1970, domani sarà una "festa per il compleanno del caro amico William", nel senso di Friedkin, che è nato a Chicago il 29 agosto del 1935 e nella stessa data, scelta non a caso da Alberto Barbera, alla Mostra riceverà il Leone d'oro alla carriera. Il riconoscimento «è un grande onore, molti cineasti lo meriterebbero più di me, perciò sono ancora più grato», dice il regista.
E non per civetteria ma per antica modestia, tanto che, quando vinse l'Oscar per Il braccio violento della legge (1971), il giorno dopo «per la prima volta nella vita andai da uno psicanalista: "ho vinto un Oscar ma penso di non meritarlo", gli dissi. Lui mi fece parlare, intanto scriveva su certi fogli gialli, poi, dopo un'ora, mi liquidò, tempo scaduto. Avrei fatto meglio a parlare con un amico o con chiunque fosse stato disposto ad ascoltarmi», ricorda il regista, del quale sta uscendo in Italia l'autobiografia, Il buio e la luce. La mia vita e i miei film (Collana Overlook).
Friedkin è al telefono da Firenze, dove ha trascorso qualche giorno di vacanza prima di raggiungere Venezia. «A Firenze ho curato la regia di due opere liriche con Zubin Mehta, è una città a cui sono molto legato, come sono legato a Venezia, che, specialmente durante la Mostra, diventa come una casa spirituale, nel '95 c'ero con Jadee due anni fa ero in concorso con Killer Joe.
Devo molto alla cultura italiana, la passione per il cinema è nata con Orson Welles e Quarto potere, ma sono stati Rossellini, Fellini, Antonioni, Monicelli, Bertolucci, a influenzare il mio lavoro».
Cosa ha fatto dopo Killer Joe?
«Ho scritto il libro, sono 500 pagine, è stato difficile, non ho mai tenuto un diario e ho dovuto scavare nella memoria. Quando è uscito, mi sono venute in mente tante altre cose. In particolare sui primi matrimoni...».
Quattro matrimoni, l'ultimo è in corso dal '92, gli altri durarono molto meno, il primo, con Jeanne Moreau, neanche quattro anni...
«Jeanne fu il primo grande amore, quando ci sposammo stavamo già insieme da tre anni. Ci ha diviso la differenza delle culture, lei viveva in un ambiente intellettuale francese, non era a suo agio con la cultura americana. Io sono di Chicago. Siamo rimasti molto amici, l'ho rivista pochi anni fa, ha presentato lei la retrospettiva dei miei film alla Cimathèque a Parigi. à una grande attrice, per la Francia un tesoro nazionale».
L'autobiografia è stata anche l'occasione per un bilancio della sua vita?
«Sono stato fortunato, grazie a Dio ho avuto più successo di quanto meritassi. Ma non ho mai dimenticato la mia infanzia povera, quando mio padre guadagnava 50 dollari la settimana. Bisogna restare con i piedi per terra, la vita è un dono magnifico ma molto fragile, di colpo può cambiare tutto, bisogna vivere con gioia momento per momento».
Prima fattorino nella tv di Chicago, poi producer e regista di serie: che rapporto ha oggi con la tv?
«Ottimo, alcune serie affrontano temi scottanti che il cinema non si permette. Mi sono occupato di varie serie, da Ai confini della realtà a C.S.I.: ho scritturato io William Petersen per il ruolo di Grissom».
Lei è considerato l'innovatore del poliziesco e dell'horror, L'esorcista è il film più terrificante dei tutti i tempi. à vero che dopo il film andò in manicomio?
«No, questa è una delle tante leggende. Ero a Roma per l'uscita italiana del film e quel giorno c'era una croce illuminata sulla chiesa di piazza del Popolo, che di colpo cadde a terra. Scrissero che era stata fatta cadere per la pubblicità del film, una follia.
In Germania invece feci un'intervista per un quotidiano e il giorno dopo c'era una foto del mio letto in albergo e della mia compagna di allora. La didascalia era: questo è il letto dove dorme il diavolo, questo è il letto della donna che dorme con il diavolo. Il mio nome non era neanche scritto».
à vero che nel '75 voleva fare un documentario su Polanski?
«Ho filmato con lui una lunga intervista, volevo confrontare la sua visione del cinema
di paura con quella di Fritz Lang, che ho incontrato prima che morisse. Lang era convinto che la violenza dovesse essere lasciata all'immaginazione, come la palla che rotola dopo che i bambini vengono avvicinati dal mostro di Dusseldorf in M. Per Polanski invece non mostrare la violenza significava ingannare il pubblico.
Penso che abbiano ragione entrambi, dipende dai casi: nell'Esorcista dovevo mostrare un'indemoniata, era impossibile immaginarla. Il documentario su Lang è uscito, ma non ho finito quello su Polanski, sono stato preso dalla preparazione di Il salario della paura».
Il salario della paura, restaurato si vedrà alla Mostra.
«La scelta è giusta, è una storia che parla di disperazione, di violenza, di lotta per sopravvivere, di incertezza del domani, forse è il mio film più attuale».
Come giudica l'America di oggi?
«Non la ricordo così divisa. Il paese del melting pot, di etnie e religioni diverse, è diventato di nuovo il paese del razzismo e dell'odio, l'economia non va avanti. La mancanza di collaborazione tra repubblicani e democratici blocca ogni decisione importante. Gli americani capivano perché dovevamo intervenire nella seconda guerra mondiale, ma perché i nostri soldati stanno ancora in Iraq e in Afghanistan?
Obama è un uomo meraviglioso, ma forse sono troppe le speranze riposte su di lui. Non che il resto del mondo vada meglio: stiamo distruggendo il pianeta, ovunque il dolore supera la gioia. Io non sono cattolico, ma credo negli insegnamenti di Gesù sull'amore che deve vincere l'odio. In fondo in tutti i miei film c'è la lotta del Bene contro il Male».
Ma non ha voglia di una romantica storia d'amore, di un musical...
«Adoro i musical anni 50, mi fanno ancora sognare. Vorrei farne uno, ma dove sono oggi Fred Astaire e Ginger Rogers? Forse solo la mia generazione li ricorda, oggi la musica pop parla di odio per le autorità , di violenza, brutalità , allora si cantava e si ballava l'amore, la speranza, l'avventura a lieto fine».
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