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1. NAPOLITANO RICATTA L'ITALIA
Alessandro Sallusti per âIl Giornale'
A Giorgio Napolitano la situazione sta sfuggendo di mano e lui arriva al ri¬catto. «Se non fate come dico io, mi di¬metto ». Non lo farà - purtroppo- per¬ché su quella poltrona, che è la più costosa di qualsiasi presidenza al mondo, alla faccia dei tagli alla politica, è incollato. Ha i forconi che premono alla porte del Palazzo, ha le città para¬lizzate da scioperi selvaggi di categorie varie tradite e sfiancate, non c'è un solo dato econo¬mico che indichi un barlume di ripresa, ma niente, lui si aggrappa al duo Letta-Alfano (in¬sieme non arriverebbero, in una elezione, al¬l' 8 per cento dei voti) per tenere il Paese reale fuori dalla porta.
Non ha sentito, come ebbe a dire, il boom di Grillo, ha fatto fuori Berlusconi coi metodi che conosciamo, non ne vuole sape¬re di Renzi. Tre quarti degli elettori sono privi di rappresentanza al governo. Ma niente. Non ne vuole sentire parlare di prendere atto del fal¬limento del suo progetto di larghe intese, che in realtà è un monocolore Pd vecchia guardia (cioè comunista o post che sia).
Non basta nep¬pure che la sua figura sia precipitata ai minimi nel gradimento degli italiani. Convoca mini¬stri come se fosse un premier, modifica gli equilibri con la nomina di senatori a vita ami¬ci, lancia ogni giorno proclami da dittatore. Non vede che il Paese è allo stremo e che la col¬pa è solo sua, tante ne ha fatte a partire dallo sciagurato blitz che portò all'insediamento del governo Monti (oggi il partito dell'ex pre¬mier è all'uno per cento). Qualcuno dovrebbe avere il coraggio di dir¬glielo: presidente, liberi l'Italia dalla sua noci¬va presenza ai vertici dello Stato. Lo faccia, si ritiri.Ha l'età per farlo senza drammi. Qualsia¬si cosa accadrà dopo non potrà che andare me¬glio.
Come arbitro non è più credibile, l'Italia ha bisogno di tornare al più presto alle urne per avere un Parlamento legittimo e quindi un governo autorevole. Il problema non sono i for-coni in piazza, ma Napolitano al Quirinale. Do¬ve lui e il governo non possono mettere becco (vedi la quotazione Moncler di ieri in Borsa) le cose ancora funzionano. Se ci lasciano in pa¬ce, se ci lasciano liberi, sappiamo cosa fare. E spesso lo facciamo bene.
2. NAPOLITANO MINACCIA: O SI FA COME DICO IO O LASCIO IL QUIRINALE
- IL PRESIDENTE DÃ L'AUT AUT AL NEMICO DELLE LARGHE INTESE - RENZI NON PARTECIPA AL BRINDISI E SE NE VA SENZA SALUTARE
di Fabrizio d'Esposito per Il Fatto
Matteo Renzi è una macchia grigia a metà del salone delle feste, al Quirinale. Ha le gambe accavallate, il capo chino sul telefonino. Sembra un marziano tra i mandarini del Napolitanistan. E lo è anche nell'abito. Un completo grigio chiaro che contravviene alla regola dell'abito scuro.
Giorgio Napolitano viene annunciato alle diciassette in punto. "Entra il presidente della Repubblica". Tutti in piedi. Anche Renzi. à l'unico, chiaro segno di riverenza che il nuovo segretario del Pd fa al sovrano del Sistema. Il resto è solo gelo. Non solo quello che cala su Roma in un terso lunedì di metà dicembre.
à la "prima" di Renzi leader democratico alla "cerimonia per lo scambio degli auguri con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile". Il sindaco di Firenze arriva a piedi in un mare di auto blu. à la sindrome da marziano, appunto. Arriva con il ministro Del Rio. Entra con lui, stringe le mani ai corazzieri. Poi sale su. L'attesa è tutta per il discorso del re. L'anno scorso, il 17 dicembre, Napolitano chiuse il suo intervento spiegando perché costituzionalmente non è un bene farsi riconfermare al Colle e manifestando la sua delusione per la salita in politica dell'allora premier Mario Monti.
Stavolta il bersaglio è Renzi. Liquidato Berlusconi e il berlusconismo con la scissione di Alfano, il sindaco di Firenze rappresenta un grave rischio per il governo Letta e per la concezione delle larghe intese alias inciucio alias consociativismo. Ed è per questo che Napolitano concentra la sua minaccia nelle ultime sette righe del discorso di dieci pagine, quando ritorna sulla rielezione dell'aprile scorso.
Alla fine, il redivivo Casini commenta con i suoi: "Basta leggere solo quelle". Leggiamole dunque: "Nel ringraziare poi il Parlamento e i rappresentanti delle Regioni per la fiducia largamente accordatami, ebbi modo di indicare inequivocabilmente i limiti entro cui potevo impegnarmi a svolgere ancora il mandato di presidente. Anche di quei limiti credo che abbiate memoria; ed io doverosamente non mancherò di rendere nota ogni mia ulteriore valutazione della sostenibilità , in termini istituzionali e personali, dell'alto e gravoso incarico affidatomi".
La traduzione è semplice: se qualcuno (Renzi) pensa di fare la legge elettorale con Grillo e Berlusconi e di andare alle elezioni nel 2014 io mi dimetto. Punto. Il messaggio al nuovo segretario del Pd è questo. Tutti i segretari di quel partito si sono sempre inchinati al Colle (Bersani lo ha fatto con mal di pancia notevoli, ma lo ha fatto) e adesso tocca a Renzi adeguarsi. Qui è Rodi e qui bisogna saltare.
Soprattutto se le cronache dei giornali riportano che domenica a Milano, il sindaco non ha mai citato il presidente. Favore ricambiato ieri. Ampiamente. Napolitano nomina Letta, Berlusconi, persino Quagliariello. Renzi, invece, è relegato insieme con Alfano sotto la voce "nuove leadership". Un po' poco per il leader del partito che sostiene il peso maggiore di questo esecutivo.
Il colle si fa scudo delle "scosse sociali" (leggi forconi) per sentenziare che servono "risposte" non "le elezioni anticipate". Il solco che Napolitano traccia a Letta Nipote (nel salone c'è anche Letta Zio che poi va via con Mauro Masi, ex dg Rai) è il "patto programmatico di coalizione per il 2014". Prima del 2015, il voto è inutile anche perché Napolitano è profeta e veggente e conosce il risultato: "L'Europa ci guarda ed è diffusa, credo, tra gli italiani la domanda di risposte ai loro scottanti problemi piuttosto che l'aspettativa di nuove elezioni anticipate dall'esito più che dubbio".
Il Vangelo secondo Giorgio, non Matteo, sono le riforme e la stabilità . Ossia la parte del discorso che fa cadere le palpebre a più di un ospite. Sono in tanti che si assopiscono. Renzi resta sveglio. Sulla legge elettorale, il Colle non deflette dalla nuova maggioranza. Lui e il premier sentono il peso della scissione di Alfano: "Si dialoghi e si cerchino intese innanzitutto nella maggioranza di governo ma, nella massima misura possibile, anche con tutte le forze di opposizione". Il Colle analizza, vaticina, raccomanda , indica, valuta, impartisce. Fa risalire il suo interventismo addirittura allo Scrittoio del Presidente di Luigi Einaudi. Mah.
Il Quirinale non dimentica di bastonare Berlusconi sulla decadenza, "non autorizza a evocare immaginari colpi di Stato e oscuri disegni", ma poi invita Forza Italia a votare le riforme, ricordando la figuraccia sulle deroghe all'articolo 138 della Carta per cambiare la Costituzione. Tra gli invitati ci sono vari azzurri. Dopo faranno sapere di non essersene andati solo per "rispetto".
La furia berlusconiana, altrove, si riassume così: "à la prova che hanno voluto farmi fuori e continuano a tenermi nell'angolo". Napolitano finisce e c'è il tradizionale rinfresco. Il Potere in processione per fare gli auguri al presidente. L'ospite più fotografato però va via senza brindare e salutare. Renzi ritira il cappotto al guardaroba e incrocia Alfano. Una battuta delle sue: "So che lei parla solo con Letta". Poi le scale, in discesa. Politicamente è il contrario. Salita dura e pura, dopo il diktat del Quirinale. Basterà una telefonata a scongelare i due?
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