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Francesco Semprini per “la Stampa”
Tutt'altro che conciliante è stato il generale Khalifa Haftar durante gli incontri di Roma del 26 settembre, quando su invito di Marco Minniti, ha visto lo stesso capo del Viminale e il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, con alcuni alti ufficiali dello Stato maggiore. L'uomo forte della Cirenaica, invitato nell'ambito di quell' allargamento del dialogo con tutti gli attori libici, pensato come funzionale al processo di pacificazione del Paese, sarebbe stato davvero perentorio nelle sue dichiarazioni, tanto da lasciare i suoi interlocutori davvero spiazzati.
Haftar ha detto chiaramente che il 17 dicembre, ovvero alla scadenza degli accordi di Skhirat, l'intesa quadro sulla quale è stata strutturato l'assetto istituzionale della Libia attuale con il Consiglio presidenziale e il Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al Sarraj, sostenuto dall' Organizzazione delle Nazioni Unite, sarà un momento di rottura piena, secondo quanto riferiscono fonti vivine al dossier a «La Stampa».
«In quella data il popolo libico si solleverà» dinanzi al totale fallimento del progetto avviato dalla comunità internazionale. «Continuate con incontri, roadmap, emendamenti agli accordi vigenti, in quella data, ci sarà la sollevazione, interverrà l'Esercito nazionale libico al quale il popolo chiederà aiuto, ed io alla testa dei militari prenderò il controllo della Libia. A quel punto sarò l'unico vero interlocutore credibile del Paese».
Le affermazioni di Haftar nascono dalla sua profonda convinzione che gli attori politici dell' attuale fase di governo della Libia, a partire dalla leadership tripolitina, sono «corrotti e incapaci» di assicurare un futuro al Paese.
La posizione, lontana da quell'atteggiamento di disponibilità raccontato da alcuni, non facilitano certo il processo di normalizzazione del Paese già alle prese con difficoltà interne dovute alle divisioni intestine (basti guardare gli scontri a Sabratha per la spartizione del potere) alla piaga del traffico di esseri umani e a una ripresa delle pulsioni terroristiche con lo Stato islamico che è tornato a insediarsi in alcune zone dell' entroterra desertico.
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Lo dimostrano i recenti raid delle forze aeree di Africom che, nei giorni passati, hanno colpito alcune postazioni delle bandiere nere a Sud di Sirte dove si stavano riorganizzando campi di addestramento e check point per gestire i loro affari. Le attività del Comando Usa in Africa proseguono da oltre un anno ininterrottamente, dapprima per ordine di Barack Obama e poi con Donald Trump che ha intensificato gli sforzi.
Come i raid compiuti in Somalia contro le forze al-Shabaab, e le operazioni «fantasma» compiute nell' ambito del «Trans-Sahara Counterterrorism Partnership», ovvero in coordinamento con forze speciali dei Paesi interessati specie in Algeria, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mauritania, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, e Tunisia.
Nell' ambito di queste, tre militari dei berretti verdi sono stati uccisi due giorni fa, e altri due feriti in un blitz compiuto in Nigeria. A dimostrazione di come le difficoltà operative in quella parte del pianeta siano elevatissime per stroncare la lotta al terrorismo e le sue commistioni nelle tante attività illecite. Sforzi per cui il contributo e la stabilità degli Stati interessati rappresentano una condizione essenziale. A partire da quello di una Libia stabilizzata che appare più che mai cruciale.
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