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DAGOREPORT – GIORGIA MELONI, FORSE PER LA PRIMA VOLTA DA QUANDO È A PALAZZO CHIGI, È FINITA IN UN…
Maria Giovanna Maglie per Dagospia
REVOLUTION la chiama giustamente quel vecchio furbone di Matt Drudge dal suo ormai storico sito di news, Drudgereport, inaugurato tanti anni fa proprio contro un Clinton, l’allora presidente e adultero e bugiardo, ma brillante e abile statista, Bill. Oggi che la storia non si ripete, e la famiglia Clinton sembra una coppia di parrucconi con figlia un po’ svampita riluttante al seguito e uno staff da gettare nel secchio dell’immondizia, Drudge gode. Lui Hillary l’ha sempre detestata, sapeva quanto valesse alle spalle del marito. Già, alle spalle.
REVOLUTION, Sanders 60 per cento, Clinton 38; dall’altra parte Trump 34, Kasich 16, Cruz 11, Rubio non pervenuto, ecco i numeri del New Hampshire, lo staterello tutta neve, nevica sempre in New Hampshire e c’è un freddo becco, che fa da presentatore ufficiale al Paese dei winners e dei losers , e conta, oh se conta, se non altro per capire da dove ripartire e quali errori evitare.
Conta soprattutto oggi che la campagna elettorale non è più dilatata fino all’estate delle convention, a luglio quella degli sfidanti a Cleveland, subito dopo a Filadelfia quella degli incumbent, il partito al governo, ma è nervosamente contratta tra marzo e aprile, e dunque di tempo per rimediare agli errori ce n’è poco.
ll caucus in Iowa non è una vera elezione primaria, quella in New Hampshire si, e se nel lontanissimo 1992 Bill Clinton arrivò solo terzo, viaggiava in autobus e senza soldi, nessuno sapeva chi fosse, se non i volponi del suo partito, si vide chiaro che era pieno di fascino, gradasso e provinciale eppure colto e raffinato, un animale di razza politica pura, pronto a sfidare il vecchio malato Bush senior, espressione solo della nomenclatura repubblicana, che aveva retto perché di buon mestiere e nell’aura di Ronald Reagan, ma si era già logorato nella recessione inevitabile del dopoguerra del Golfo e in quella sciocca promessa “read my lips no more taxes”, leggetemi le labbra, nessun aumento di tasse.
Nel 2008 dal New Hampshire partì l’avanzata di Barack Obama e la cocente delusione di Hillary Clinton, che pure nel 2008 era ancora tosta e giovane, non aveva nell’armadio il cadaverone della guerra a Gheddafi, della strage del suo uomo e degli americani lasciati soli a Bengasi , non nascondeva mail pubbliche a uso privato, non aveva messo a capo dello staff Sidney Blumenthal, ovvero l’uomo che l’ha convinta all’operazione sporca in Libia.
Nel 2008, quando era un candidato migliore e più competente del suo avversario, poi due volte presidente, quello che ora lascia in eredità l’America ridotta a rabbioso antisistema, Hillary non si definiva moderata e progressista, perché come le ricorda il suo avversario, un rooseveltiano all’antica, puoi essere o moderato o progressista, tutt’e due no. Nel 2008 a Hillary non sarebbe venuto in mente di schierare come testimonial Madeleine Allbright, 78 anni e Gloria Steinem, 81, a fare le femministe cattive e rancorose in sedia a rotelle, accusando le ragazze che votano per Sanders di voler solo incontrare dei giovanotti.
Risultato: Hillary sotto i 65 anni di età non becca un voto, e questo è un marchio che resta. Bill Clinton invece si è giocato la carta esilarante di un Bernie Sanders sessista, e tutti risero, e ipocrita perché accuserebbe loro, la famiglia Clinton, di fare in giro discorsi a pagamento, ma in segreto li fa anche lui.
Se c’è una cosa da evitare negli States, è il moralismo un tanto al chilo sul quattrino, quello funziona da noi; se poi Sanders nel 2014 ha guadagnato 1500 dollari e li ha dati in beneficenza, esibendo fattura di biglietto aereo in economy, Bill Clinton invece 21 milioni di dollari e jet privati per recarsi in loco, l’argomento diventa un autogoal micidiale, rivela l’ex presidente come un vecchietto livoroso e disonesto. Urge un Biden qualunque,il vice in carica, serio affidabile, low profile, dicono ormai a voce alta finanziatori e membri del comitato elettorale del partito, nel panico. Altro che investitura santa e passeggiata della signora verso l’incoronazione del primo martedì di novembre.
Può il partito repubblicano godersi fino in fondo la gioia del casino democratico? No, perché Donald Trump vince solidamente, alla faccia degli snob americani ed europei. No, perché il pupillo del partito, Marco Rubio, fresco dell’umiliazione inflittagli nel dibattito tv dal governatore del New Jersey, Christie, che pure sta per ritirarsi, è finito dopo l’exploit stragonfiato dai media di un terzo posto in Iowa, addirittura sotto all’ectoplasma di Jeb Bush. Certo, si stacca nel truppone in affanno John Kasich, il governatore dell'Ohio finora rimasto nelle retrovie, che arriva secondo.
marco rubio fox google debate
jeb bush dibattito
Ma stavolta essere un qualunque bravo governatore moderato non sembra bastare. Al contrario, servono vene del collo gonfie e argomenti estremi, assieme al dominio della comunicazione che Donald Trump conosce a meraviglia. Che cosa rende Rubio ingessato e non convincente? La scelta impostagli dai capataz del partito di sembrare moderato e pronto ad accordi con i meno liberal tra i democratici.
E’ come se il politically correct che è il sedimento del Paese si rivoltasse contro gli stessi che lo hanno seminato e fatto crescere, e che ora vogliono rabbiosamente sentir dire che l’avversario, ma anche l’alleato troppo per bene, “ is a pussy”, è una fica lessa, come è successo a proposito di Cruz in un recente comizio di Trump.
Niente dei vecchi cliches sembra più funzionare in questo livido inverno americano, neanche quello cavalcatissimo di rinfacciare a Trump i cambiamenti di orientamento politico, lui che a lungo ha avuto simpatie democratiche; subito si ricorda che la stessa cosa fece Ronald Reagan, figlio di un rooseveltiano fervente e lui stesso a Hollywood a lungo democratico, prima di trasformarsi nel cavaliere senza paura dei conservatori repubblicani.
reagan con la moglie jane wyman
Il fantasma di Reagan aleggia sui possibili imbrogli di una convention che a luglio a Cleveland potrebbe, se Trump non avrà vittorie schiaccianti in Texas e California, fabbricare una nomination taroccata, come accadde per Gerald Ford contro Reagan nel 1976. Ford perse malamente con Carter, nell’80 non ci provarono più a ostacolare Ronald.
Se la carta Rubio si ammoscia, se Ted Cruz al Gop fa orrore forse perfino più di Trump, ecco avanzare, in parallelo al Biden democratico,l’ipotesi salvifica di un Michael Bloomberg, già sindaco di New York, ma non più repubblicano bensì indipendente, dunque se mai si deciderà, terzo candidato. Di solito non funziona, i moderati dei due partiti si riversano sul terzo solo in piccola parte, il bipartitismo essendo nelle radici del sistema, e come accadde nel 92 con il terzo, il miliardario Ross Perot, finisce che si offre a uno degli altri due la vittoria con pochi voti. Bloomberg è troppo astuto e rappresenta interessi troppo importanti per non calcolare tutto.
Resta la stranezza del tutto spiegabile dell’elettorato nel 2016: la classe media bianca, che sempre si è sentita la maggioranza della nazione, è allo sbando, non solo economicamente, soprattutto culturalmente, nell’identità, e si rivolge a chi sembra incarnare la sua esasperazione, il suo estremo, da una parte e dall’altra. Lo ha scritto benissimo sul NYTimes Rusty Reno, direttore di First Things.
"Se questi candidati (Trump e Sanders) hanno un'attrattiva è perché negli ultimi decenni le nostre elite politiche, esse stesse quasi interamente bianche, hanno deciso, per ragioni diverse, che la classe media bianca non ha alcun ruolo da giocare nel futuro multiculturale e globalizzato che immaginano, un futuro che credono di guidare. Questa stagione di primarie mostrerà se hanno ragione oppure no". Middle class europea e italiana, vi dice qualcosa? Editorialisti saputelli che ironizzate sul parrucchino del miliardario o sul linguaggio paragrillino di Sanders, non un pensierino della sera? Intanto il 20 South Carolina e Nevada.
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