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Federico Rampini per "La Repubblica"
Quaranta milioni di dollari, un risarcimento-record nel suo genere, un milione di dollari per ogni anno passato in carcere. Ma la giustizia arriva con 25 anni di ritardo. E solo perché a New York oggi c’è un sindaco progressista, Bill de Blasio, che vuole rompere con i metodi del passato, ha promesso di voltare pagina rispetto a un’èra di razzismo e discriminazioni da parte della polizia.
Il maxi-risarcimento va ai “cinque di Central Park”. Allora erano adolescenti, fra i 14 e i 16 anni, tutti neri e ispanici. Si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato quella sera terribile del 19 aprile 1989. La sera dello “stupro di Central Park”, un crimine così feroce da sconvolgere perfino una metropoli abituata a quei tempi a dei livelli di violenza record.
La vittima, Trisha Meili, lavorava come top manager in una banca d’affari di Wall Street. Era andata a fare jogging come sempre, alle nove di sera, nel più grande parco pubblico di Manhattan. La ritrovarono in fin di vita, col cranio quasi fracassato e i segni della violenza sessuale. In un città coi nervi a fior di pelle, traversata allora da tensioni razziali acute, la notizia creò una psicosi. I politici e i media ne fecero un caso da risolvere subito, a tutti i costi.
E la polizia non li fece attendere troppo. Acchiappati e sbattuti in carcere cinque ragazzi che importunavano i passanti a Central Park, non fu difficile estorcergli le confessioni: con la tortura psicologica, e il classico metodo dei “finti tradimenti”, i poliziotti convinsero ciascuno di loro che gli altri quattro lo avevano denunciato. Gli avvocati difensori denunciarono quegli abusi, chiesero la cancellazione delle confessioni ottenute con metodi illeciti. Ma i cinque “mostri” ormai erano stati dati in pasto all’opinione pub-
blica, condannati e sbattuti in carcere.
La vittima miracolosamente riuscì a salvarsi dopo un lungo coma, Trisha Meili raccontò la propria tragedia in un’autobiografia. Sui dettagli dell’aggressione non ricordava nulla, un’amnesia totale avvolgeva quella sera, quindi non poteva essere lei a scagionare i cinque. Solo nel dicembre 2002, improvvisamente un altro carcerato confessò.
Matias Reyes, già condannato per stupro e omicidio, ammise di essere stato lui, poi i test del Dna confermarono la sua colpevolezza. Era l’inizio della fine di un incubo per Kharey Wise, Kevin Richardson, Antron McCray, Ysef Salaam, Raymond Santana Jr. Ma un conto fu uscire dal carcere, altra cosa ottenere il riconoscimento del torto subito.
Michael Bloomberg, pur essendo diventato sindaco 12 anni dopo la condanna dei “cinque”, s’impuntò nel rifiutare l’ammissione di colpevolezza della polizia, non volle mai accettare un patteggiamento che includesse la condanna dei metodi usati per estorcere quelle false confessioni. Bloomberg non voleva rimettere in discussione i “filtri razziali” che secondo lui avevano contribuito a ristabilire l’ordine in città.
La svolta in questa vicenda è avvenuta grazie a un film. Il documentario “The Central Park Five”, realizzato nel 2012 con materiali d’epoca e interviste ai cinque innocenti, ha avuto ampia diffusione nelle sale e poi in tv. Ha ricordato alla città, quasi immemore, quello che era stato il terribile errore giudiziario.
Ha convinto Bill de Blasio, nella sua campagna elettorale dell’autunno scorso, a impegnarsi per una giustizia vera e un risarcimento adeguato. Il merito del documentario è anche un altro, ha ricordato ai newyorchesi un’èra di insicurezza, criminalità dilagante, che veniva alimentata anche dalla diffidenza tra le comunità etniche. Tra le immagini di quel film ci sono spezzoni di tg dell’epoca che restituiscono quartieri con una povertà da Terzo mondo, e dilaniati da una larvata guerra civile: un passato che oggi sembra lontanissimo.
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