DAGOREPORT - A RACCONTARLO NON CI SI CREDE. RISULTATO DEL PRIMO GIORNO DI OPS DEL MONTE DEI PASCHI…
Achille Bonito Oliva per “la Repubblica”
Quasi Natale. Un buonismo espositivo si aggira sull’Europa. Il Centro Pompidou di Parigi presenta la più grande retrospettiva di Jeff Koons (fino al 27 aprile). Un centinaio di opere sono installate a meraviglia di un pubblico adulto e bambino. Predomina infatti il linguaggio della vetrina, il potere di persuasione della cornice, implicante esposizione e proiezione, offerta e riserbo, uso e contemplazione.
Se Nietzsche aveva profetizzato la trasformazione del mondo in favola e della verità in narrazione senza fondamento, Warhol prima e Koons ora, confermano l’ineluttabilità di tale destino. Un metodo storico e cronologico regge tutta l’esposizione e attraversa trentacinque anni di lavoro dell’artista americano, scandita in diverse serie: Inflatables, Pre New, The New, Equilibrium, Luxury and Degradation, Statuary, Banality, Made in Heaven, Celebration, Easy Fun, Easy Fun Etheral, Popeye, Hulk Elvis, Antiquity, Gazin Ball .
Aspirapolveri, neon, contenitori d’acqua, salvagenti, cani fatti di palloncini, giocattoli da spiaggia, un enorme cuore, le icone di Keaton e Michael Jackson e alcune immagini porno-pop che plaudono al kitsch scorrono sotto i nostri occhi per celebrare l’american dream .
L’inerte quotidiano è così immerso e spostato dentro la cornice dell’arte. Sembra suggerire l’inerzia del soggetto produttore dell’opera. Tale peculiarità è il modo dell’artista di stabilire uno stile di collegamento fra se stesso e l’universo che lo circonda, tra le proprie istanze espressive e le dinamiche quantitative del mondo circostante.
Il risultato paradossale è la fondazione di una superoggettività del soggetto , l’evidenziamento di uno stile impersonale capace di dialogare sulla stessa lunghezza d’onda con tutti i soggetti del sistema dell’arte e del contesto sociale per approdare allo stadio finale del consumo dell’arte stessa: la contemplazione.
È evidente nell’opera di Koons il ribaltamento dalla speranza di mitico altrove all’immanenza dell’opera nel suo presente storico. La quiete di questo atteggiamento statistico evidenzia la condizione dell’artista che non vuole rinunciare al proprio presente, ma affermare il suo radicamento ad esso.
Prima di Jeff Koons l’antenato nobile resta Baudelaire, la data di partenza quella del 1855, dell’Esposizione universale di Parigi. Qui il poeta prende atto dei nuovi caratteri dell’arte, quelli dell’indifferenza e dell’equivalenza alla merce. Anche se merce assoluta. Ora evidente in questa retrospettiva parigina, con una centralità simbolica dentro un mercato ormai passato dalla poesia alla prosa, senza nostalgie e con terribile lucidità.
Dalla serie Equilibrium (1985) a Balloon Dog ( 1994-2000) prevale l’assemblaggio tangibile e tridimensionale di reperti provenienti dalla produzione corrente. Un’ oggettistica senza precedenti che segue un metodo costruttivo esaltante la familiarità dell’oggetto quotidiano, ripreso anche dalla pubblicità sfiorando il ricalco (fino a un’assurda accusa di plagio come accaduto per l’opera Fait d’hiver).
Nel trasferimento da Chicago a New York progressiva è l’oscillazione di Koons tra minimalismo e pop art che trova il suo modello in Warhol. Prevale sempre un volontario e patinato stile che ritrova nella neutralità, impersonalità ed oggettività i caratteri di una tipica tradizione americana. L’efficacia dell’assemblaggio, l’istantaneità della comunicazione, una superarte frutto di un inevitabile plusvalore mediatico.
Da qui l’amplificazione di armamentari tecnici che dilatano e spostano l’effetto fermo immagine verso l’ effetto cinema. Quasi scompare l’artefice dell’opera e piuttosto anneghiamo tutti nel mare magnum della comunicazione globale. Ipnotico, come da tradizione puritana, diventa il prodotto levigato e presentato con una strategia di esplicita vetrinizzazione: New Hoover Convertibles ( 1981-86).
Inevitabile è attingere all’immaginario collettivo della società di massa, dal cartoon ai miti della musica. Non ci stupiamo dello sfioramento e leggera attenzione per temi quali la morte e l’immortalità, come nella mega scultura in porcellana Michael Jackson and Bubbles ( 1988) che sembra volersi confrontare con la Pietà di Michelangelo. Una sfacciata ed ostentata ingenuità serpeggia nell’opera di Jeff Koons, un’apertura al sogno banale e al mondo dell’infanzia (che si sa niente affatto banale).
L’artista si sente garantito dalla iperrealtà di un ordine linguistico che non distrugge l’oggetto ma ne rispetta il suo consistere quotidiano. In tal modo Jeff Koons rende familiare il ready made di Duchamp, ne riduce il potere di estraneamento e la possibilità di accedere ad una nuova identità.
Il tentativo dell’artista è offrire alla middle class americana una estetica adeguata a santificare un gusto senza gusto, quella inclinazione a procurarsi opere a sé medesima, ribadire ciò che più le somiglia. Da qui l’uso dell’acciaio, “argento dei poveri” che dà brillio e splendore a sculture che rasentano il rococò.
L’ultima serie Antiquity (2009-2014) esemplifica lo sguardo americano verso la storia dell’arte europea, antica e contemporanea. Un’iconografia al limite di un disincantato kitsch, un cortocircuito tra scultura greco romana e i super eroi del fumetto. Rappresentazione di un presente che fa di ogni antichità modernariato e cerca di coniugare alto e basso. Qui l’arte è un drive in che celebra un eterno presente. Una democrazia dello sguardo.
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