DAGOREPORT - TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA…
Marco Ciriello per “il Mattino”
Il lustrascarpe che palleggiava con i calzini e divenne re, il bambino che aveva il nome “elettrico” di Edson che portò la luce sui campi; Arantes do Nascimento, il calciatore che ha segnato milletrecento gol: uno così prezioso che venne rubato;
che è in cento canzoni e mille romanzi e troppi film, che ha duettato con presidenti e papi (quattro), che è stato la regina di Svezia e quasi quella d’Inghilterra; che ha vinto tre Coppe del mondo (’58,’62,’70) con la nazionale brasiliana e due (per club) col Santos:
il primo a diciassette anni, e a venti era già patrimonio nazionale, poi divenne anche uno stadio: quello di Maceió; che una volta fermò una guerra: quando il Santos andò a giocare in Africa, Zaire e Congo fecero pace per il tempo della partita;
che è l’unico calciatore espulso a tornare in campo sostituendo l’arbitro a furore di popolo, l’uomo che era il monumento a se stesso, se c’era una onorificenza l’ha avuta, se c’era un premio gli è stato dato, così per copertine, muri e strade e piazze, statue e busti, videogiochi e leggi; il cui nome è stato il motore fisico e mentale di miliardi di corse verso una porta con un pallone: Pelé; è morto.
«Meglio di Pelé forse Gesù, e qualche volta Dio», ripeteva César Luis Menotti tradendo la fede argentino-maradoniana. La morte di Pelé ha smentito anche Burgnich (1939 –2021) che dopo averlo marcato, nel 1970 a Città del Messico, dichiarò: «Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo».
La raccontava come se fosse facile e ci fosse una scala, un albero, un trampolino di fianco a Burgnich: «Saltai con perfetto tempismo e colpii di testa la palla, che oltrepassò le braccia tese del portiere Ricky Albertosi».
Quello che per gli altri era difficile per lui era facile, tutta la sua vita è stata una volata di successi e conservazione di questi. Difficile separare Pelé dal calcio, difficile scindere il gioco e la vita, sono un solo corpo. Ogni volta che gli mostravano documentari o film sulla sua bella esistenza al riaccendersi delle luci, singhiozzando, diceva: «Questo non è pallone, ma è vita».
Per questo non ha mai allenato, per non lasciare il campo per la panchina, per non smettere il suo “essere” calciatore in funzione di allenatore – che rimane un estraneo rispetto al gioco –.
Perché Pelé è stato il calciatore – universale – il modello al quale guardare: «Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l'iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d'erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull'altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti», così lo raccontava Gianni Brera.
Nato in una casa povera da un calciatore sfortunato, João Ramos do Nascimento detto Dondinho, al quale promise di vincere i mondiali – giurando su un quadretto di Gesù – vedendolo in lacrime davanti all’impresa dell’Uruguay nel ’50.
E ponendo fine, otto anni dopo, al “Complexo de vira lata”, definizione del drammaturgo e scrittore brasiliano Nelson Rodrigues, per l’inferiorità brasiliana rispetto al mondo, sputando sulla sua immagine da narciso.
Passò dalla strada al campo del Bauru, dove abitava, e lì lo vide correre e segnare Waldemar de Brito che lo portò al Santos e profetizzò anche tutto il resto che sarebbe venuto: aveva quindici anni ma già attraversava le difese a folate, già dribblava tutti come un antenato della playstation.
Eduardo Galeano lo raccontava come un corpo estraneo: «Quando Pelé avanzava di corsa, passava attraverso gli avversari come un coltello. Quando si fermava, gli avversari si perdevano nei labirinti che le sue gambe disegnavano.
Quando saltava, saliva nell’aria come se l’aria fosse una scala. Quando batteva un tiro da fermo, gli avversari che formavano la barriera avevano voglia di piazzarsi alla rovescia, con la faccia rivolta alla porta, per non perdersi il golazo».
“Pelé” arrivò dopo altri soprannomi: “Dico”, come lo chiamava lo zio e lo avrebbe sempre chiamato la mamma; e “Gasolina” che si deve ai compagni del Santos, in onore di un cantante brasilero.
È qui che divenne Pelé – nome che non gli è mai piaciuto, perché quando aveva sei anni e faceva il lustrascarpe, il suo idolo era il portiere Bilé, che però non sapeva pronunciare bene, e allora diceva “Pilè”, e tutti cominciarono a prenderlo in giro ripetendogli Pelé, Pelé – segnando gol a nastro, fin dalla prima partita di esordio, una amichevole contro il Corinthians de Santo Andrade. Segnò anche all’esordio in nazionale contro l’Argentina. Era il 1957, aveva 16 anni, giocò il suo primo campionato da titolare che chiuse da capocannoniere (lo sarà per 11 volte).
Cominciando la sua carriera di extracalciatore, bisogna ricordare 8 gol in una sola gara, contro il Botafogo col portiere Machado tatuato a vita. Per capire la portata del cammino di Pelé e di come vedeva la porta, bisogna ricordare che segnò cinque gol in un solo incontro per sei volte, realizzò quattro gol in una singola partita trenta volte e per novantadue partite fu autore di una tripletta.
Trattandosi di Pelé, niente è normale e i gol più belli sono due, di cui uno rubato e l’altro perso dalle telecamere e ricostruito al computer attraverso i racconti: quello del ’59 allo stadio Rua Javari contro il Clube Atletico Juventus. Pelé superò quattro avversari con quattro «sombreros» consecutivi, quattro pallonetti sopra le loro teste portandosi solo in area e poi segnando.
L’altro è quello segnato nel marzo ’61, «il gol della placa», torneo Rio-San Paolo, il Santos vince 1-0 col Fluminese quando al 41' Pelé guada tutto il campo, scartando sette avversari, zigzagando tra Valdo e Edmilson, lasciando indietro Clovis, Altair e Pinheiro, liberandosi di Jair Marinho, superando Castilho, e segnando.
«Sembrava una nave che faceva slalom tra le onde», ricordano i suoi compagni Coutinho e Doraval. È considerato il gol più bello segnato al Maracanà. Quella rete venne filmata da due tv e da tre telegiornali, ma non esiste più.
Se la sono rubata e l’hanno sostituita con un’altra azione che entra perfettamente nel gioco. Forse era un sequestro temporaneo di gol con un riscatto da chiedere, e quindi un romanzo “gialloro” da scrivere: ad accorgersene un produttore e regista cinematografico, Anibal Massaini Neto, uno che collezionava gol di Pelé. È Neto che ha rifatto entrambi i gol, rendendoli immortali.
Anche con la nazionale brasiliana ha segnato a valanga, sei al suo primo mondiale, nel ’58 in Svezia, di cui una doppietta in finale contro i padroni di casa: il primo dei due gol, è considerato tra i migliori della storia dei mondiali, pallonetto a scavalcare il suo marcatore e poi tiro in porta. Nel ’62 si infortunò alla seconda partita contro la Cecoslovacchia, e toccò a Garrincha fare il Pelé.
Non tutti conoscono la storia della più grande ala destra del calcio, Mané Garrincha, spesso dimenticato, ma ha fatto molto per i record di Pelé, senza i suoi dribbling – con una gamba più corta dell’altra di sei centimetri – e soprattutto i suoi cross, avremmo meno gol da raccontare: faceva finta di mandare la palla da un lato e poi la mandava dall’altro, lì c’era Pelé che correggeva tutto in porta, anche lo strabismo di Mané.
Nel ’66 segnando su punizione contro la Bulgaria divenne il primo calciatore ad andare a segno in tre mondiali differenti, ovviamente poi i mondiali divennero quattro. Il resto del campionato lo giocò zoppicando ed evitando calci, non andò bene, e alla fine con l’eliminazione disse di non voler più giocare un mondiale. Purtroppo per l’Italia nel ’70 era di nuovo in campo in Messico.
E tutti se lo ricordano arrampicarsi in cielo e segnare, crossare e dribblare, generando la più bella finta senza toccare il pallone, ai danni del portiere Ladislao Mazurkiewicz nella semifinale del campionato mondiale del 1970 contro l’Uruguay.
Arrivò a quel mondiale non senza difficoltà, a riprova che la vita non è stata facile nemmeno per Pelé: João Saldanha, giornalista e allenatore, che aveva guidato il Botafogo, vedeva Pelé miope e attaccante, alla fine fu rimosso dalla guida della nazionale, arrivò ad allenare Mario Zagallo che si accertò che Pelé ci vedesse bene e che tornasse a giocare nella posizione che voleva, infatti vinsero il mondiale. Perché Pelé non faceva la differenza, era la differenza.
Nello spogliatoio dell’Azteca, dopo aver battuto l’Italia urlò a lungo e soprattutto agli altri: «non sono morto, non sono morto». Amava essere un idolo. Era un nero disinteressato, anche se veniva percepito come sottomesso alla dittatura brasiliana, diverso da Muhammad Ali che invece si muove in contrapposizione come Diego Armando Maradona. È la stella nel buio della dittatura, brilla nelle imprese sportive, e illumina il regime di Emílio Garrastazu Médici.
La sua modernità come atleta coincise con lo sviluppo del Brasile, i suoi successi con l’emancipazione dei brasiliani. Con la terza coppa del mondo alzata, si ritirò dalla nazionale, non diventando però una gloria stanca ma andando a giocare nei Cosmos con Beckenbauer e Chinaglia in America, fino al ’77.
Dopo farà l'attore-giocatore nel film di John Huston: “Fuga per la vittoria” giocando con Michael Caine e Sylvester Stallone, diventerà ministro dello Sport con Fernando Henrique Cardoso, e il testimone di se stesso, un trofeo per papi, Kennedy e Warhol. Ha giocato 1367 partite e ha fatto 1283 gol, concludendo: «Mi pare abbastanza».
Ha avuto solo tre mogli: Rosimeri Cholbi dalla quale ebbe due figlie Cristina e Jennifer Kelly e un figlio, l'ex portiere Edinho, che gli ha dato non pochi problemi tra droga e riciclaggio di denaro sporco. Poi la cantante Assiria Seixas Lemos, dalla quale ha avuto due gemelli Joshua e Celeste, e infine l’imprenditrice Marcia Aoki Cibele. Collezionando una serie di storie con domestiche, attrici, modelle, psicologhe e regine di bellezza, che l’hanno portato a dire di non sapere quanti figli abbia realmente.
Fuori dal campo è sempre apparso goffo, a parte la rivalità con Diego Armando Maradona, ha sempre evitato i conflitti, è sempre stato dalla parte del potere come in occasione delle proteste pre-mondiali apparendo come un Forrest Gump bravo solo col pallone e che pubblicizza il Viagra. Però, quando superava gli avversari li convinceva anche che fosse giusto. Sigge Parling, calciatore svedese, confidò agli amici:
«Dopo il quinto gol anch’io avevo voglia di applaudire», e stava perdendo un mondiale. Ha illuminato i giorni e le notti, gli stadi e le periferie, mostrando la sacralità del calcio, e anche se ora ci dicono che è scomparso, sappiamo che l’immortalità esiste e passa per un gol. Pe-Lé, quattro lettere, due coppie, tre mondiali. Dolce più di Lo-li-ta, che non ha l’accento finale e non salta, dribbla, segna, conquista.
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